venerdì 25 ottobre 2013

Brevi racconti privi di senso.

Puntata 5/2. “Uno spiacevole incontro”

Penultima puntata di questo racconto privo di senso. Confidiamo, in un eccesso di modestia, di dare un senso alla vostra vita. Ricordo inoltre che questo racconto è REALMENTE privo di senso. Cioè, c’è gente che pensa di trovare il senso della vita leggendo libri, racconti, poesie, dialoghi. Pazzesco vero? E io sto cercando di dimenticare in cosa mi sto laureando!

Ti sei perso le puntate precedenti? 
Eccole!




La ragazza riuscì a risvegliarsi, con la testa che gli scoppiava. Aveva una flebile immagine del gatto seduto lì accanto, ma adesso non c’era più. Aprì la portiera della macchina e mise un piede fuori;  mentre l’aria fresca le inondava i polmoni e il sole di novembre le riscaldava il viso, si accorse di essere piena di lividi e botte, sporca di sangue.
La voce di un uomo la chiamò, era tanto vicino che si prese uno spavento.



Sapeva che se avesse svegliato di soprassalto la ragazza in quelle condizioni, probabilmente lei avrebbe avuto un infarto. Oppure sarebbe scappata via urlando, attirando l’attenzione di qualcuno: questo, almeno per lui, significava la galera. Si costrinse a respirare a fondo.
Specchiandosi nei vetri dell’automobile, cercò di darsi una sistemata: con quel po’ di acqua che aveva nella macchina si pulì il viso dal sangue, non potendo però nascondere l’occhio nero e il naso storto. Si tolse la camicia inzuppata e sudicia e rimase solo con una maglietta e il cappotto. La sua mente viaggiava velocissima (per quanto possibile dopo il mix di allucinogeni e whisky), cercando di capire come togliersi dai pasticci.
Ma la ragazza si stava risvegliando, doveva inventarsi qualcosa subito.



L’uomo aprì lo zaino e tirò fuori le sue prede. Dopo essersi inginocchiato, come se stesse preparandosi al pranzo di Natale, iniziò il suo pasto, mentre il sole faceva capolino tra le colline vicino.



La ragazza fissava l’uomo dall’occhio nero che aveva conosciuto la sera prima. Non sapeva cosa dire. Lui iniziò a parlare velocissimo, scusandosi e dicendo che l’avrebbe riportata a casa. Lei non capiva, sapeva solo che aveva freddo e si sentiva sporca. I capelli le ricadevano sulle spalle, umidi.
Ai suoi discorsi lei rimase in silenzio, guardandosi in giro con espressione stralunata. L’uomo si mise a piagnucolare che non voleva andare in galera, non di nuovo.
La periferia della città era il luogo da evitare per antonomasia, non riusciva a capire perché si trovasse lì con quell’uomo patetico a quell’ora tanto strana. Ma d’un tratto le ritornarono alla mente brevi sprazzi, veloci come sogni, allucinazioni della sera prima, e tutti quei gatti. E capì.



L’uomo stava ancora piagnucolando quando la ragazza sembrò colpita da un fulmine: una luce le passò negli occhi, come quando all’improvviso capisci come risolvere un complicato problema di matematica. Allora lei balzò dalla macchina in strada, correndo nella direzione opposta all’uomo, che smise di piangere e si lanciò all’inseguimento, zoppicando a causa delle botte: come un prigioniero che scappa per la sua libertà. In quel momento la sua libertà era quella ragazza: doveva prenderla e tappargli la bocca, se le sfuggiva, per lui era la galera, di nuovo.
La ragazza svoltò prima a destra, poi a sinistra in un vicolo. Entrambi non correvano,più che altro si trascinavano, incespicavano.

Raggiunse un incrocio di quattro vicoli, al centro una fontana. La ragazza girò a destra e si fermò di botto.

Lo spettacolo che aveva davanti era raccapricciante e impiegò una decina di secondi a realizzarlo: un uomo era chino su un animale morto, con le mani toglieva quelli che, con tutta probabilità, erano pezzi di fegato o intestino dell’animale. Dopodiché se li mangiava. L’uomo chino sollevo piano il capo, la guardò e emise un ringhio spaventoso. Si alzò lentamente, le mani e la faccia sporchi di sangue. Scavalcò l’animale e mosse il primo minaccioso passo verso di lei.
Erano distanti forse cinque metri. E l’uomo aveva in mano un coltello.

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