lunedì 16 dicembre 2013

La Corriera


Il racconto seguente è già apparso sull’ultimo numero di Itaca, il periodico di informazione dell’Istituto di Istruzione Superiore Vincenzo Capirola, sedi di Leno e di Ghedi (BS).


Ero in piedi da poco più di cinque minuti, stavo correndo per strada e avevo già il fiatone, sentivo l’ansia stringermi lo stomaco; succede quando la sveglia non suona e hai appena perso l’autobus per andare a lavoro. Se arrivi in ritardo si arrabbiano. Possono mandarti a casa, in punizione, senza farti tornare, e se non torni non lavori. Se non torni non guadagni. Se arrivi in ritardo perdi tutti i soldi. Il tempo è denaro.   
7:24.           
L’orologio mi sorrideva. Ero arrivato giusto in tempo per prendere l’ultima corriera, che sarebbe arrivata solo tre minuti dopo.                         
Posai la ventiquattrore a terra, dalla tasca della giacca presi un fazzoletto di carta e, mentre lo usavo per togliermi il sudore dalla fronte, colpa della fretta non ancora smaltita, ecco che il cuore si bloccò di colpo, come fosse rimasto impietrito dalla visione di un fantasma. Infatti, notai come per le strade del mio paese non ci fosse nessuno. Né vecchi che portavano a spasso il cane, né signorine di  trent’anni in bicicletta, né gente che usciva dal panificio o dal tabaccaio. Tutto era deserto, la vita sembrava non esserci mai stata. Nulla.      
Ci avevo fatto caso perché, una volta arrivato alla fermata del bus, ero rimasto sorpreso di non dovermi impegnare a cercare, come al solito, lo spazio vuoto più comodo per evitare di restare accerchiato dai gruppetti di adolescenti. Quando li vedevo venivo sempre preso di soprassalto dai miei rimpianti più profondi, e star loro vicino mi faceva star male. Avevo semplicemente vissuto male quegli anni.   Sembrava che non avrei dovuto soffrire in quella giornata. La vita solitamente non mi sorride, quel lunedì sembrava farlo, quindi le ipotesi erano due: o dovevo morire quel giorno, o il peggio non era ancora arrivato. Ebbi la sensazione tipica dei presagi peggiori, quelli che si realizzano, gli incubi da cui non c’è risveglio.       
E il peggio arrivò.   Camuffato da autobus.              

Lo vidi arrivare, da lontano, diventava sempre più grande con l’avanzare dei metri, sempre più imponente, finché non si fermò proprio davanti a me. Le luci che componevano il nome della destinazione erano spente. I vetri erano neri, non riuscivo a vederci attraverso. Appena salii a bordo lo constatai nuovamente.   
I passeggeri erano cinque in tutto, annoiati e indifferenti alla vita, non feci fatica a trovare un posto libero, mi sedetti; vicino a me nessuno.       

L’autobus arrivava alla mia destinazione alle 7:58, dovevo timbrare il cartellino alle 8:15. Sulla corriera, quindi, non avevo motivo di temere di non arrivare in tempo. Ma quel giorno la fortuna mi aveva guardato. Non mi fidavo. L’ansia mi spinse a posare un occhio  sull’orologio.       
10:43.
L’insensato era entrato nella realtà. Essa non era più tale.               
Mi sentii smarrito, sentii il nulla che si prendeva gioco di me.          
Com’è possibile? Avevo pensato, in uno stato di profonda disperazione. 
Corsi verso il conducente e piangendo gli chiesi di fermare il bus e aprire le porte.
Questa corsa non ha fermate, viaggia in eterno. Non mi crede? Guardi la data sul suo orologio. 
24 maggio 2184.    
Provai a rompere i vetri.   
Sono infrangibili, è inutile. Era veramente inutile.
 
Implorai gli altri passeggeri, Fate qualcosa! Dissi gridando, ma niente.       
Stanno facendo la cosa giusta e sempre la faranno. Non mi parlarono mai. Non era un brutto sogno, era la mia vita.        

Il tempo sembrava non passare mai, ma era successo davvero. Erano veramente trascorsi tutti quegli anni da quando ero salito su questo bus, solo che non me ne ero accorto; qui nessuno ha mai avuto bisogno di mangiare, bere o dormire, tutti eravamo autonomi, come gli animali in letargo. Quando lo scoprii lo sconforto non fu poco.

Passarono circa centomila anni, quello della noia cominciava ad essere un problema rilevante. Tra l’altro, avevo ancora l’ansia di non riuscire ad arrivare al lavoro per tempo.             
Andai nuovamente dall’autista, prontamente lo avvisai. Gli chiesi, ancora, di fermarsi e farmi scendere. Lui mi rassicurò, mi disse che certamente la situazione era sconfortevole, che influiva sul mio stato d’animo in modo negativo e che avrebbe molto apprezzato il fatto che io non fossi mai salito, ma ciò non gli permetteva assolutamente di farmi scendere.   
Mi tolsi la cintura e provai ad impiccarmi legandola ad un maniglione; riuscii a far penzolare le gambe, la gola come lacerata, i polmoni bruciavano, gli occhi si socchiudevano. Nero.       
Fine.

No.
Ciò non servì.         
Mi risvegliai al mio posto, la cintura alla vita, la gola sana.  
Le dissi che il viaggio dura in eterno. Perché fa i capricci? Non ha più due anni!

Sono ancora qui. Sono passati milioni di anni. Vedi, talvolta, la solitudine e l’angoscia sono così intensi che anche se so che sei solo frutto della mia immaginazione, caro amico fittizio, ti parlo lo stesso. Solo una cosa vorrei che tu imparassi dalla mia storia: se sprecherai la tua vita, quando ti sarai accorto dell’errore fatto, da vecchio, noterai che la disperazione che in quel momento così atroce ti starà facendo compagnia, è la medesima che provo io adesso.
Ti conviene vivere bene. Ti chiederai come.            
Non te lo dico, ma ti svelo una cosa: la stazione di partenza di questa corriera aveva un nome, Egoismo. Cerca altrove la risposta.

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