Quando il gufo chiamò il mio nome, le
luci in cielo lampeggiavano. Marika dormiva e vedevo le sue curve sinuose dare
forma alle lenzuola vellutate, mentre il condizionatore acceso ronzava ancora
nel silenzio. Non ricordo esattamente perché mi svegliai, sicuramente sentii il
verso dei gufi, come in ogni notte di quell’afosa estate 1999. Forse avevo
fatto un sogno. Accesi la piccola abat-jour sul mio comodino e cercai le mie
ciabatte blu che Marika mi aveva regalato qualche giorno prima. Così la smetti di girare scalzo! Era una
cosa che proprio non sopportava, ma era una libertà che mi piaceva prendere,
dopo cena.
Andai al cesso, facendo attenzione a non sbattere
contro gli spigoli della porta e del comò nel corridoio. Fin da quando ero
bambino, camminare nella mia casa avviluppata dal buio mi dava un’emozione
strana: il respiro mi si fermava in gola, ero molto attento a non fare il
minimo rumore. Soldato, questa non è un
esercitazione! Tutto dipende da te! Quel soldato era rimasto vivo dentro di
me, in qualche luogo recondito della mia mente, dove si annidano ancora le più
bizzarre fantasie che avevo da bambino. Non
sono ammessi passi falsi, soldato! Alzai le mani in posizione da yoga,
pensando che se fossi stato visto da qualcuno in quell’istante, quel qualcuno
avrebbe pensato che io fossi un perfetto imbecille.
Procedendo con le gambe piegate e le braccia tese,
nell’oscurità più completo del corridoio, toccai finalmente la porta del bagno.
Fu allora che capitò. Arrivò un lampo improvviso che illuminò il breve spazio
tra me e la porta di legno. Quello che vidi su di essa mi spaventò a morte. Il
volto di un gufo, che sembrava marchiato a fuoco, mi fissava spettrale. Caddi
all’indietro, trattenendo un grido di terrore ma sbattei con la testa contro il
comò. Sentii Marika muoversi in camera, ma subito ripiombò il silenzio.
Ricordo che rimasi a terra, immobile in una
posizione dolorosa per un tempo che sembrò infinito. Fino al successivo lampo,
stavolta accompagnato da un boato terribile che fece tremare la casa. La luce
illuminò la porta del bagno, ma il mio sguardo ancora terrorizzato non vi vide
nulla. Con una lentezza esasperante, cercai di rimettermi in piedi. Un’altra
cosa che ricordo fu che dovetti strisciare per un paio di metri, prima che il
sangue mi ritornasse caldo nelle vene, sciogliendo la paura che aveva
anestetizzato i miei muscoli.
Tornai al letto, tolsi le ciabatte, spensi
l’abat-jour. Marika dormiva ancora, dalla finestra entrava il fioco bagliore
della luna. Mi infilai sotto le coperte, e quando guardai verso la luna vi
scorsi in controluce un gufo posato all’estremità di un palo dell’alta tensione.
Altri gufi iniziarono a cantare nel silenzio tumultuoso della notte, mentre
sentivo lui chiamare il mio nome,
come un sussurro che mi giungeva dritto alle orecchie. L’estate afosa del 1999 è
rimasta scolpita nella mia mente, perché fu quando venne la notte in cui il gufo chiamò il
mio nome. Per la prima volta.
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